Spiare le chat di WhatsApp è reato: la sentenza della Cassazione chiarisce i confini della privacy digitale
Indice
- Introduzione: lo scenario giudiziario attuale
- Il fatto: la storia della sentenza e i protagonisti
- La decisione della Cassazione: WhatsApp come "sistema informatico protetto"
- Accesso abusivo a sistema informatico: riferimenti normativi e implicazioni pratiche
- La questione della prova nelle cause di separazione
- Implicazioni penalistiche: sanzioni e pena fino a 10 anni di carcere
- I principi della tutela della privacy nelle chat WhatsApp
- Cassazione e diritto alla riservatezza: sviluppi giurisprudenziali
- Cosa cambia per cittadini e avvocati: condotte vietate e tutele
- Conclusioni: riflessioni sulla privacy digitale e sintesi dei punti chiave
Introduzione: lo scenario giudiziario attuale
Nel contesto sociale attuale, la tutela della privacy digitale è sempre più centrale. Gli strumenti di comunicazione, la messaggistica istantanea e le chat private sono parte integrante della sfera personale di ciascuno. In tale panorama si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione pubblicata il 5 giugno 2025 che, destinata a fare scuola, afferma con chiarezza: spiare i messaggi di WhatsApp di un’altra persona, anche se ex coniuge, è un reato grave.
Il pronunciamento, reso noto a Roma, consolida un orientamento giurisprudenziale che estende all’ambiente digitale le tutele previste per la corrispondenza privata “tradizionale”. In concreto, l’accesso senza consenso al cellulare altrui e la consultazione delle chat WhatsApp costituiscono “accesso abusivo a sistema informatico”, con tutte le conseguenze penali del caso.
Il fatto: la storia della sentenza e i protagonisti
La vicenda all’origine della sentenza vede protagonista un uomo che, in due occasioni distinte (marzo 2022 e marzo 2023), avrebbe acceduto senza autorizzazione ai dispositivi mobili della ex coniuge, estrapolando e utilizzando le conversazioni WhatsApp come prova in giudizio nell’ambito di una causa di separazione.
La condotta è stata caratterizzata da comportamenti molesti, culminati nella sottrazione di chat, messaggi e dati da due differenti cellulari. L’intenzione, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, era di avvalersi di quei dati per sostenere le proprie ragioni nell’ambito della causa in corso, ma l’azione ha comportato una violazione evidente della privacy dell’ex partner.
I fatti sono stati oggetto di denuncia e approfondimento in sede penale, con particolare attenzione all’elemento dell’accesso non autorizzato a sistemi informatici protetti da credenziali e password.
La decisione della Cassazione: WhatsApp come "sistema informatico protetto"
La sentenza della Cassazione assume particolare rilievo per aver qualificato WhatsApp come un vero e proprio sistema informatico protetto, la cui inosservanza delle regole di accesso costituisce un illecito penale. La Corte, infatti, riconosce che la piattaforma di messaggistica istantanea, usata quotidianamente da milioni di utenti, veicola informazioni intime e personali che devono essere tutelate alla pari della posta privata.
Nel dispositivo si legge che anche le chat e le chiamate scambiate tramite WhatsApp rientrano a pieno titolo nella sfera privata e inviolabile della persona. Qualsiasi accesso abusivo, realizzato senza il consenso del proprietario del device, va considerato alla stregua dell’apertura arbitraria della posta convenzionale.
La Cassazione, dunque, inserisce WhatsApp e simili applicazioni nell’ambito degli strumenti informatici sottoposti a protezione, estendendo una garanzia fondamentale per la privacy digitale.
Accesso abusivo a sistema informatico: riferimenti normativi e implicazioni pratiche
L’art. 615-ter del Codice Penale italiano disciplina il cosiddetto reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico. Secondo la norma, “Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza è punito con la reclusione da uno a cinque anni”, pena aumentata nei casi di condotte aggravate.
La recentissima sentenza della Cassazione applica questa tipizzazione anche ai casi di accesso al telefono cellulare altrui senza il dovuto consenso. È irrilevante che l’accesso sia avvenuto con finalità probatorie, cioè per estrapolare dati da usare in giudizio, come evidenziato nel caso in oggetto: ciò che rileva è l’assenza di autorizzazione del titolare.
Dal punto di vista pratico, la regola si applica anche ai coniugi o ex coniugi, ove non sussista un esplicito consenso all’accesso allo smartphone e alle applicazioni installate, inclusi chat WhatsApp, registri delle chiamate e altri dati personali.
La questione della prova nelle cause di separazione
Uno degli aspetti più delicati riguarda l’utilizzo delle chat WhatsApp come prova nei procedimenti di separazione. In passato, prassi non sempre cristalline vedevano ex coniugi “appropriarsi” di messaggi e conversazioni, magari lasciando il telefono momentaneamente incustodito, per raccogliere elementi utili da depositare agli atti.
La Cassazione, con la sentenza in oggetto, segna un chiaro spartiacque: la prova così raccolta, cioè “spiare le chat WhatsApp senza consenso” o la consultazione delle chat private non autorizzata, costituisce non solo un illecito probatorio ma anche un esplicito reato penale. L’effetto pratico è duplice:
- Le prove raccolte violando la privacy digitale sono inutilizzabili nei giudizi;
- Chi ha effettuato l’accesso abusivo può incorrere in una pesante condanna, anche se era mosso da finalità “difensive”.
Implicazioni penalistiche: sanzioni e pena fino a 10 anni di carcere
Il profilo sanzionatorio è particolarmente rilevante. La legge prevede pene che vanno dalla reclusione fino a 5 anni, aumentabili fino a 10 anni in caso di aggravanti, come l’utilizzo dei dati raccolti in procedimenti giudiziari, la reiterazione del comportamento o la presenza di condotte moleste e aggravamenti.
Nel caso specifico, il fatto di avere prelevato chat da ben due dispositivi e averli utilizzati come prove giudiziali ha comportato l’aggravante maggiormente punita dal legislatore. La severità della sanzione intende scoraggiare comportamenti lesivi della riservatezza, anche nella delicata fase di crisi coniugale.
Inoltre, l’eventuale reiterazione delle condotte moleste, come accaduto specie in quest’ultimo caso affrontato dalla Cassazione, rappresenta un’ulteriore aggravante ai fini della determinazione della pena.
I principi della tutela della privacy nelle chat WhatsApp
La pronuncia si fonda sul fondamentale principio della tutela della privacy anche nelle comunicazioni digitali. WhatsApp, Telegram e qualsiasi altro servizio di messaggistica, secondo la giurisprudenza ormai prevalente, devono essere considerati a tutti gli effetti come estensione della sfera personale.
Le principali garanzie rispettate dalla sentenza sono:
- Il diritto all’inviolabilità della corrispondenza (Costituzione Italiana, art. 15);
- Il rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali (GDPR);
- La necessità del consenso esplicito all’accesso a qualsiasi device o applicazione privata;
- Il divieto assoluto di accedere e scaricare chat, messaggi, registri o dati personali senza autorizzazione.
Da sottolineare che non esistono eccezioni legittimanti l’accesso abusivo nemmeno in caso di sospetta infedeltà, comportamenti che si intenderebbe documentare o provare: ciò che conta è la mancanza di consenso.
Cassazione e diritto alla riservatezza: sviluppi giurisprudenziali
La sentenza si inserisce, inoltre, in un panorama di crescente attenzione all’efficace tutela della privacy digitale. La giurisprudenza si è progressivamente orientata a riconoscere piena protezione al contenuto delle chat e delle comunicazioni online, assimilando le chat WhatsApp e i messaggi privati a qualunque altro strumento di corrispondenza tutelato dalla legge.
Negli ultimi anni, le Corti avevano già iniziato a censurare la raccolta abusiva di prove digitali, ma questa decisione della Cassazione segna un punto fermo particolarmente autorevole. L’obiettivo è impedire che la tecnologia diventi veicolo di violazione della dignità personale e favorire un uso corretto delle prove digitali in sede giudiziaria.
Cosa cambia per cittadini e avvocati: condotte vietate e tutele
Alla luce di questa sentenza, cittadini e professionisti del settore legale devono prestare massima attenzione alle modalità di raccolta delle prove digitali, in particolare nelle delicate fasi dei procedimenti di separazione e divorzio.
Le condotte vietate possono essere sintetizzate come segue:
- Accedere al telefono, tablet o computer del partner o ex partner senza permesso;
- Aprire WhatsApp, leggere o trasferire messaggi senza consenso;
- Utilizzare chat private o screenshots come prova senza autorizzazione;
- Installare software di controllo (spyware) sugli apparecchi del coniuge;
- Divulgare o pubblicare messaggi prelevati abusivamente.
Le tutele invece previste per la vittima comprendono:
- La possibilità di denunciare immediatamente l’accesso abusivo e ottenere giustizia;
- Il diritto alla cancellazione dei dati raccolti illegalmente e la rimozione delle prove dal fascicolo processuale;
- Risarcimento dei danni morali e materiali subiti;
- L’eventuale attivazione degli ordini di protezione e delle misure cautelari.
Si tratta di regole chiare destinate ad avere un impatto rilevante sia sui comportamenti privati che sull’attività dei professionisti del diritto coinvolti in cause di separazione o affidamento.
Conclusioni: riflessioni sulla privacy digitale e sintesi dei punti chiave
La sentenza della Cassazione del 5 giugno 2025 rappresenta una pietra miliare in materia di privacy digitale, destinata a ridefinire i confini della riservatezza nell’era della comunicazione istantanea. Spiare le chat di WhatsApp senza consenso – a fortiori in contesti di crisi familiare – è un reato penale a tutti gli effetti.
I cittadini dovranno adattare i propri comportamenti, evitando di raccogliere e utilizzare conversazioni private senza l’esplicita autorizzazione, specie in procedure giudiziarie. Gli avvocati e i professionisti del diritto, a propria volta, saranno chiamati a vigilare e a educare i propri assistiti, per evitare che lo “strumento probatorio digitale” si trasformi in un boomerang legale.
Riassumendo, i punti essenziali della sentenza sono:
- WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto;
- L’accesso senza consenso all’account di un’altra persona configura sempre reato di accesso abusivo a sistema informatico;
- Le prove raccolte in modo illecito sono inutilizzabili e fanno scattare pesanti condanne penali;
- La pena, in presenza di aggravanti, può arrivare sino a 10 anni;
- La privacy della corrispondenza digitale è pienamente tutelata dalla legge e dalla giurisprudenza.
Questa sentenza segna un deciso passo avanti nella costruzione di una società in cui il rispetto della privacy digitale sia una concreta garanzia per chiunque e un monito chiaro contro ogni forma di interferenza abusiva nelle vite altrui.