Andrea Crisanti e la crisi del merito nell’università italiana: un’analisi della riforma e delle sue conseguenze
Indice degli argomenti
- Introduzione: intervista e contesto della denuncia
- Una riforma che umilia il talento: il punto di vista di Andrea Crisanti
- I concorsi universitari in Italia: tra trasparenza mancata e risultati scontati
- La staticità accademica: carriera in un unico ateneo e le conseguenze
- La posizione delle università italiane nei ranking internazionali
- La fuga dei cervelli: statistiche e testimonianze
- Analisi delle cause strutturali: nepotismo, clientelismo, immobilismo
- Soluzioni possibili e confronti con i modelli internazionali
- Conclusioni: una chiamata al cambiamento per il futuro dell’accademia italiana
Introduzione: intervista e contesto della denuncia
L’autorevole microbiologo e senatore del Partito Democratico, Andrea Crisanti, ha lanciato un durissimo atto d’accusa nei confronti del sistema universitario italiano. Nel corso di un’intervista, Crisanti ha definito la recente riforma del reclutamento universitario una misura che "umilia il talento" e ha espresso profonde perplessità circa il merito effettivo dei concorsi accademici. Secondo Crisanti, in quarant’anni di carriera non ha mai assistito a un concorso universitario di cui non si conoscesse già in anticipo il vincitore. Tale dichiarazione, forte e per certi versi provocatoria, riaccende i riflettori su annosi problemi della formazione superiore italiana e sull’urgente necessità di una riflessione collettiva.
Le tematiche toccate da Crisanti, dalle difficoltà nei processi di selezione ai ritardi delle università italiane nei ranking internazionali, fino all’allarmante dinamica della fuga dei cervelli, rappresentano punti nodali per il dibattito sulla qualità e sulla reputazione del nostro sistema universitario. Analizziamo nel dettaglio i principali aspetti della denuncia lanciata da Crisanti e il contesto in cui nasce, per poi ampliare lo sguardo alle evidenze e alle possibili soluzioni.
Una riforma che umilia il talento: il punto di vista di Andrea Crisanti
Crisanti ha definito la riforma del reclutamento universitario una misura che "umilia il talento e che svilisce la reale competitività accademica". Secondo lui, invece di premiare le competenze, la riforma tende a consolidare pratiche già esistenti di stampo nepotistico e clientelare. Il riferimento diretto del senatore è alle modalità con cui vengono banditi e gestiti i concorsi per nuovi docenti e ricercatori, che troppo spesso premiano non il meglio, ma chi è più inserito all’interno di reti e cordate accademiche.
“La selezione nel nostro sistema universitario”, ha spiegato Crisanti, “si basa sull’appartenenza più che sul merito oggettivo. Non c’è modo per un giovane brillante, magari formatosi anche all’estero, di emergere davvero se non si piega a logiche locali o di casato accademico. Il risultato? Il talento viene umiliato e la qualità della ricerca e della didattica ne risente pesantemente”.
Questa critica si inserisce nel solco di un dibattito che, da anni, vede molti studiosi sollevare perplessità sull’efficacia reale delle riforme del settore accademico, viste spesso come palliativi o peggiorativi rispetto al problema di fondo: l’effettiva capacità del sistema di valorizzare il talento accademico.
I concorsi universitari in Italia: tra trasparenza mancata e risultati scontati
Uno dei passaggi più discussi nell’intervento di Crisanti riguarda la gestione stessa dei concorsi accademici italiani. Il senatore non usa mezzi termini: “In quarant’anni di carriera non ho mai visto un concorso universitario di cui non si sapesse già in anticipo il vincitore”.
Questa affermazione apre uno squarcio su una pratica spesso denunciata ma troppo poco combattuta: quella dei concorsi "costruiti su misura". In tanti casi, i bandi sembrano disegnati sulle caratteristiche di un candidato già individuato a priori, restringendo il campo con criteri specifici e referenze ben collocate. Questa situazione genera numerose criticità:
- Mancanza di concorrenza reale: chi partecipa di fatto senza chance, scoprendo che la selezione non è aperta ma formalmente diretta.
- Demotivazione dei giovani talenti: molti, vistisi esclusi da logiche trasparenti, scelgono di abbandonare la carriera accademica italiana in favore di altri Paesi.
- Danno reputazionale: la percezione, anche internazionale, di una scarsa trasparenza frena collaborazioni e scambi scientifici.
Non basta, quindi, invocare "pari opportunità" se il sistema resta permeabile a logiche che tutelano più il locale che il globale, piegando la carriera universitaria alle dinamiche territoriali e di potere locali.
La staticità accademica: carriera in un unico ateneo e le conseguenze
Un altro dato fornito da Andrea Crisanti, accolto con inquietudine da molti osservatori, riguarda la sorprendente staticità degli accademici italiani: l’80% dei docenti ha svolto l’intera carriera nella stessa università.
Se da un lato questa situazione può apparire rassicurante, denotando una certa "fedeltà" istituzionale, dall’altro si tratta di un indice allarmante di chiusura rispetto ai modelli più dinamici e meritocratici. In particolare:
- Poche occasioni di contaminazione culturale: i docenti formati nello stesso ambiente difficilmente acquisiscono prospettive e metodi innovativi.
- Poca mobilità verticale e orizzontale: la mobilità tra atenei diversifica l’esperienza e arricchisce il background accademico.
- Favorire la cooptazione: la selezione "interna" rischia di alimentare ulteriormente circuiti chiusi dediti più all’autoconservazione che all’innovazione.
Crisanti indica questa pratica come una zavorra per la crescita dell’università italiana, sottolineando l’assoluta necessità di incentivare la mobilità e il ricambio generazionale per rilanciare la competitività.
La posizione delle università italiane nei ranking internazionali
Un altro punto dolente è la performance delle istituzioni italiane nei principali ranking universitari internazionali. Crisanti ha rilevato come nessuna università italiana si trovi tra le prime 100 al mondo secondo le classifiche più autorevoli (ad esempio, QS World University Rankings e Times Higher Education).
Cosa determina questa situazione?
- Scarsa attrattività per docenti e studenti stranieri, complici procedure farraginose e carenze infrastrutturali.
- Poco finanziamento per la ricerca, rispetto agli standard internazionali.
- Lingua di insegnamento prevalentemente italiana, che limita la platea degli iscritti stranieri.
- Scarsa propensione all’innovazione didattica.
I ranking, ovviamente, non sono l’unico elemento di giudizio, ma rappresentano uno specchio sintetico delle capacità di competitività globale e della reputazione dell’università italiana. Il gap con realtà come Regno Unito, Stati Uniti, Australia, ma anche Francia, Svizzera e Germania, si allarga di anno in anno e pregiudica non solo investimenti nella ricerca ma anche la capacità di attrarre talenti.
La fuga dei cervelli: statistiche e testimonianze
Uno degli effetti più tragici di questa situazione è la crescente fuga di cervelli dall’Italia. Research Europe, Il Sole 24 Ore, Almalaurea e molte altre fonti qualificate sottolineano come ogni anno migliaia di ricercatori, docenti e dottorandi scelgano di andare all’estero per vedere riconosciuto il proprio talento e trovare migliori condizioni lavorative.
Ecco alcune cifre chiave:
- Più di 30.000 giovani laureati lasciano l’Italia ogni anno.
- La maggior parte non fa ritorno, nemmeno dopo aver maturato una carriera internazionale.
- Tra le destinazioni più ambite: Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Svizzera e paesi Scandinavi.
Numerose testimonianze raccontano il sollievo e il riconoscimento finalmente trovato altrove, ma anche la frustrazione per aver lasciato il proprio Paese senza che il sistema tentasse davvero di trattenerli.
Analisi delle cause strutturali: nepotismo, clientelismo, immobilismo
Dietro la fotografia tracciata da Crisanti si nascondono cause profonde. Tutti gli indicatori convergono su alcuni "male antichi" del sistema:
- Nepotismo: la tendenza a favorire parenti, amici o predecessori all’interno degli stessi atenei.
- Clientelismo: logiche di appartenenza a correnti specifiche, dipartimenti o aree di potere.
- Immobilismo: scarsa attitudine a cambiare, innovare, testarsi con modelli internazionali.
Queste distorsioni danneggiano il tessuto accademico, fossilizzandolo su pratiche inefficienti e protezionistiche, nemiche di trasparenza e meritocrazia.
Soluzioni possibili e confronti con i modelli internazionali
Non mancano esempi virtuosi, soprattutto in ambito europeo, che potrebbero ispirare il nostro Paese. Alcune possibili strade:
- Valorizzazione della mobilità: puntare a incentivi concreti affinché i docenti possano e desiderino spostarsi tra diversi atenei.
- Trasparenza e internazionalizzazione dei concorsi: bandi almeno in parte aperti a docenti e ricercatori stranieri.
- Premiare il talento accademico attraverso valutazioni oggettive delle pubblicazioni, delle collaborazioni e della rilevanza internazionale della ricerca condotta.
- Più risorse per la ricerca e maggiore autonomia degli atenei, nell’ottica di incentivare la competitività reale.
Prendere spunto dai sistemi di reclutamento e valutazione di Paesi come Germania, Paesi Bassi, Canada o Australia potrebbe costituire uno dei tasselli fondamentali per recuperare terreno e incentivare il ritorno dei cervelli fuggiti.
Conclusioni: una chiamata al cambiamento per il futuro dell’accademia italiana
La denuncia di Andrea Crisanti non va minimizzata o ricondotta semplicemente a uno sfogo personale. È semmai il sintomo di un malessere profondo e diffuso nel mondo accademico italiano, che reclama un serio cambiamento.
Per restituire centralità al merito e al talento, il sistema universitario ha bisogno di interventi strutturali, coraggiosi e innovativi. La riforma del reclutamento dovrebbe rappresentare l’occasione per una vera inversione di tendenza, che bandisca pratiche opache e rilanci la competizione su basi oggettive.
Resta fondamentale coinvolgere la comunità scientifica, ascoltare studenti e ricercatori, costruire percorsi che consentano ai nostri migliori giovani di restare e agli italiani all’estero di tornare. Solo così le università italiane potranno finalmente competere ai massimi livelli globali, offrendo all’Italia una risorsa strategica per il futuro.